Novembre 1920
«…l’osservazione attenta e illuminata di Sua Altezza intravide la possibilità di portare un radicale mutamento alle condizioni agricole locali facendo, con derivazioni d’acqua, meccaniche o naturali, dipendere i raccolti, non più dalla vicenda capricciosa delle stagioni più o meno favorevoli, ma dalla organizzazione e dal lavoro…». Questo è quello che riporta in un opuscolo la Federazione dei Cavalieri del Lavoro. Sua Altezza è Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi il quale, nel corso dei suoi viaggi esplorativi, ha intuito che la Somalia avrebbe potuto avere un forte sviluppo agricolo con il risultato di alleggerire il peso, sulla bilancia commerciale italiana, delle importazioni di alcuni prodotti agricoli come il cotone o la canna da zucchero. Nasce, quindi la S.A.I.S. (Società Agricola Italo-Somala) che inizia a pianificare una serie di attività di bonifica, di ingegneria idraulica e di studi agricoli proprio per rendere le attività produttive di questi prodotti, di sementi oleose come sesamo, arachidi e ricino, nonché di produzioni agricole di sussistenza per i coloni. La S.A.I.S. incontra numerosi ostacoli nella realizzazione dei suoi progetti. Fra eccezionali piene dei fiumi che alimentano i campi, epidemie di colera e peste, ma anche la malaria ampiamente diffusa, la società non riesce a raggiungere gli obiettivi previsti. Per il cotone, in particolare, le cui colture hanno una resa molto bassa, si pensa addirittura di cessare la produzione. Il Consorzio Agricolo di Genale che si occupa di organizzare le varie aziende agricole, di pianificare gli investimenti e convogliare gli utili alla S.A.I.S., fra alti e bassi, garantisce l’ottimizzazione delle attività agricole.
Ottobre 1929
Nel corso dell’anno, numerosi sono stati i segnali di seri problemi del mercato finanziario americano. Il 29 ottobre, martedì, il mercato azionario di New York, Stock Exchange, implode su sé stesso. In poche ore, come un incendio, il crollo del valore delle azioni sconvolge gli Stati Uniti e nei giorni seguenti tutto il mondo. Il cotone si deprezza del 50% sul mercato internazionale e la produzione agricola della colonia italiana si sposta tutta sulle banane la cui richiesta è in continuo aumento dal mercato italiano. È sempre il Consorzio Agricolo di Genale che riorganizza tutte le colture e le aziende agricole indirizzandole verso un maggiore sviluppo produttivo di questo frutto tropicale. Il trasporto che fino a quel momento era effettuato con navi adattate allo scopo, con l’aumentare della produzione, diventò presto insufficiente e, alla fine del 1935, il Ministero delle Colonie, con un apposito Regio Decreto-legge, istituisce una società che dovrà occuparsi del trasporto e della commercializzazione delle banane in tutto il Regno d’Italia. La Regia Azienda Monopolio Banane, RAMB, appena costituita, ordina subito la costruzione di quattro bananiere che dovranno aggiungersi ad altri piroscafi più piccoli e già in servizio. La “Duca degli Abruzzi”, la “Cap. Bottego” e la “Cap. Antonio Cecchi”. La progettazione è affidata ad uno dei migliori ingegneri del Genio Militare della Regia Marina, il Maggiore Generale Luigi Barberis. Le quattro navi devono rispondere, ovviamente, allo scopo per il quale vengono costruite. Devono essere veloci, capaci di svolgere una navigazione senza soste da Mogadiscio a Napoli senza scali intermedi, devono essere dotate di stive refrigerate per garantire l’ottimale conservazione delle banane, ma devono possedere anche un’altra importante caratteristica: essere facilmente trasformate in incrociatori ausiliari. La costruzione delle bananiere è affidata a due cantieri specializzati in navi militari, l’Ansaldo di Sestri Ponente e i Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone. Tre indizi fanno una prova. Progettista militare, progetto di nave civile trasformabile in militare e costruzione in cantieri praticamente militari può avere un solo significato: Mussolini vuole avere la disponibilità di navi che possono svolgere, all’occorrenza, funzioni di trasporto a scopo militare. Ha in programma di conquistare nuove colonie oppure ha già in mente, viste le ambizioni tedesche, di accodarsi a Hitler in un’eventuale attività bellica? Le nuove navi sono moderne costruttivamente e come allestimento. Hanno una capacità di carico di 2418 tonnellate da disporre in quattro stive refrigerate. Dotate di ben quindici picchi di carico erano in grado di svolgere le operazioni di carico e scarico molto rapidamente riducendo i tempi di sosta in porto. Grazie a due lussuosi appartamenti e a cinque camerini, dotati di aria condizionata, era possibile imbarcare dodici passeggeri. Lunghe 122 metri, pescaggio quasi 8 metri, velocità di crociera 17 e velocità massima di 19,5 nodi, due motori diesel FIAT e due eliche, necessitavano di un equipaggio di 120 uomini. Altro indizio. Un numero così elevato di uomini nasconde una volontà di veloce conversione in mezzo militare. A Mogadiscio e Napoli sono conservate i sistemi di armamento destinate alle RAMB I, II, III e IV. Sul ponte principale possono essere montati quattro cannoni da 120/40 mm e fino a sei mitragliere da 13,2 mm per il contrasto aereo. Su una di queste bananiere, la RAMB II, si trovano imbarcati due pozzallesi. Due ragazzi che s’incontrano per la prima volta a bordo di quella nave. Eugenio Colombo, classe 1914, marinaio, nasce e risiede in via Guerrazzi, traversa di via Scaro. Orazio Secondo, classe 1907, marinaio, nasce in via Solferino, in una casa posta fra via XXIV Maggio e via Piave, ma si trasferisce a Genova dove si sposa.
Il varo della RAMB II avviene il 7 giugno 1937 a Monfalcone e dopo le prove in mare entra subito in servizio. L’attività della nave è frenetica. Carica banane a Massaua in Eritrea e poi rotta a nord nel Mar Rosso, Canale di Suez e ancora verso nord, Stretto di Messina e arrivo a Napoli. Circa 10 giorni di viaggio ad andare e altrettanti per tornare. Grazie ai 15 bighi di carico, le operazioni commerciali duravano due giorni circa. Rifornimento di diesel, provviste e pezzi di ricambio hanno luogo in contemporanea alla caricazione o scaricazione delle banane. In più, per ottimizzare i trasporti, man mano che una stiva si svuotava, veniva immediatamente lavata e si procedeva a caricare materiale necessario alla colonia somala. La RAMB II, così come tutte le altre navi della Società RAMB, viaggiava quasi sempre a pieno carico. Arriviamo al 1940. In Italia, ogni giorno che passa, le libertà individuali vengono sempre più limitate. Non è possibile fiatare contro il fascismo, il governo e Mussolini. Le spie sono ovunque, anche nella piccola Pozzallo. Come sempre accade, esistono vigliacchi e opportunisti che, appena scorgono la possibilità di ricavarne un interesse personale, non disdegnano di accompagnarsi ai potenti di turno. Anche Pozzallo conosce, in quegli anni, personaggi del genere che non meritano nemmeno di essere ricordati. In questo clima di sospetti e di intimidazioni, la stragrande maggioranza delle famiglie pozzallesi, che non si interessavano di politica, hanno solo un problema: la povertà. È vero che non si tratta di povertà grave perché tutti hanno di che mangiare, ma è anche vero che la San Vincenzo è molto attiva e i fascisti la chiudono perché mostra a tutti qual è la realtà dell’economia del paese. Non si può dire che manchi il lavoro, ma è certo che non è sufficiente a consentire di fare progetti per il futuro. La città era stata funestata da lutti per la perdita di interi equipaggi a causa dell’affondamento di bastimenti e numerose famiglie erano rimaste nella miseria assoluta potendo confidare solo sul sostegno di associazioni di carità e delle famiglie di provenienza. I Colombo, tuttavia, non hanno questo genere di problemi. Hanno tutti un lavoro sufficientemente redditizio. Dei cinque fratelli, due sono morti durante la Prima guerra mondiale, gli altri tre sono marinai, Ippolito papà di Eugenio è padrone marittimo e l’unica sorella Maria Carolina ha sposato Carmelo Monaca, falegname ispicese da tempo trasferitosi a Pozzallo. Eugenio, da parte sua, all’età di 26 anni è un marinaio conosciuto nella marineria pozzallese. Da tempo è passato dai bastimenti a vela ai piroscafi che garantiscono maggiore sicurezza e soprattutto, stipendi migliori. Grazie ad alcune amicizie genovesi e chissà che non sia stato Orazio Secondo, residente a Genova, ad averlo aiutato, ha trovato un nuovo imbarco. Parte dalla stazione di Pozzallo il 28 aprile 1940 con destinazione Napoli. Libretto di navigazione gelosamente custodito nella valigia da marinaio e la prospettiva di un contratto d’arruolamento sicuro. Deve trovarsi negli uffici dell’agenzia marittima che rappresenta la RAMB nella mattinata del 30 aprile per il controllo dei documenti e l’arruolamento. La partenza della nave è prevista per il 2 maggio, ma essendo la Festa dell’Ascensione, tutti gli uffici e la Capitaneria di porto saranno chiusi. Il 1° maggio, Eugenio è a bordo della RAMB II. Appena arrivato a bordo si presenta al nostromo, gli viene assegnato il posto letto e subito al lavoro. Napoli è più vicina alla capitale, alla sede del governo e nonostante la colorata vivacità dei napoletani, è evidente il clima di preoccupazione per le notizie che circolano sulla possibilità che l’Italia entri in guerra al fianco della Germania nazista. La RAMB II completa le operazioni di scarico delle banane e di carico di pezzi di ricambio, provviste alimentari, olio lubrificante eccetera, eccetera. Imbarcano anche alcuni passeggeri di riguardo che vanno in Eritrea per curare i loro interessi economici, ma anche alcuni ufficiali dell’esercito.
Roma, 10 giugno 1940.
In piazza Venezia, a Roma, i fascisti hanno riunito migliaia di persone. Il Duce, si dice, farà un annuncio che resterà nella storia del paese. In molti immaginano già di cosa si tratta. Negli ultimi giorni, quelle che prima erano semplici voci, erano diventate sempre più certezze. Giungevano voci di strani movimenti dei vari reparti delle forze armate, la polizia fascista era diventata ancora più opprimente e la preoccupazione della gente era palpabile. Il fascismo che si vantava di aver risolto tutti i problemi del paese, in realtà li aveva abilmente nascosti con la propaganda e con le intimidazioni. Il giorno prima per radio e con manifesti affissi sui muri di tutte le città italiane era stato annunciato un discorso del Duce alle 18. Grazie a ponti radio e ai sistemi di diffusione di Radio Marelli il discorso sarebbe stato diffuso nelle piazze delle città più grandi e la milizia fascista si era premurata di avvertire i cittadini che erano “caldamente invitati” a partecipare. Quando Mussolini, si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia, la folla, in parte perché spinta dalla paura delle tante camicie nere che controllano la piazza, ma anche perché la sua figura incute rispetto e soprattutto sicurezza, scoppia in un urlo osannante. Centinaia di bandiere, piccole e grandi, sventolano in una piazza piena all’inverosimile. La gente è assiepata anche sul Vittoriano e sulla parte di via dei Fori Imperiali. Alle parole “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata…” la folla scoppia in un boato festoso”. La retorica di Mussolini e la sua presenza scenica hanno fatto dimenticare il significato della parola “guerra”. Apparentemente nessuno sembra rendersi conto che guerra equivale a morte, distruzione, sofferenza, privazione e non certo vita, sviluppo, gioia, abbondanza. Possibile che l’esperienza tragica della Prima Guerra Mondiale sia stata così facilmente dimenticata?
A distanza di dieci giorni dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e contro Francia, Inghilterra e Russia, esattamente al contrario dello schieramento della Grande Guerra, la RAMB II si trova a Massaua ed Eugenio colombo apprende di essere stato richiamato alle armi e che dovrà prestare il suo servizio a bordo della nave che, nel frattempo, è stata armata con i cannoni e le mitragliatrici conservate nel porto eritreo. Allo scoppio della guerra tutte e quattro le Ramb passano sotto il controllo del Comando Navale Africa Orientale Italiana. La nave non può passare attraverso Suez, in mano agli inglesi, per tornare nel Mediterraneo. Il Comando Navale decide, allora, di utilizzarla nel Mar Rosso, unitamente alla gemella RAMB I, come nave corsara. Il loro compito è di attaccare il naviglio mercantile nemico e di requisirlo. Le missioni delle due navi non hanno successo. Non ci sono navi che passano dal Mar Rosso e da Suez. I mercantili diretti in Inghilterra circumnavigano l’Africa via Buona Speranza. Il Mediterraneo è un mare pericoloso essendo in gran parte sotto il controllo delle forze aeree e marittime di Italia e Germania. Tra sommergibili, aerosiluranti, campi minati e pattugliamento continuo da parte delle unità della Regia Marina provare ad attraversarlo era molto rischioso. Ecco, allora, che il Comando Navale Africa Orientale in accordo con Supermarina dispone il trasferimento delle due Ramb in Estremo Oriente, in Giappone per fornire supporto ad un alleato che, comunque, non è ancora entrato in guerra. Fino a quel momento i due pozzallesi potevano dire che la militarizzazione aveva avuto un impatto positivo. Le attività a bordo si sono notevolmente ridotte. Niente operazioni di carico e scarico, ma solo ordinaria manutenzione e quando veniva chiamato il primo grado di approntamento perché dal ponte pensavano di aver individuato un possibile bersaglio nemico, ognuno si recava al suo posto di combattimento senza tanta convinzione.
22 febbraio 1941
Al comando del Capitano di Corvetta di Complemento Pasquale Mazzella la RAMB II salpa da Massaua diretta a Nagasaki. Il Mar Rosso è un mare sufficientemente sicuro per le navi italiane, ma ha solo due vie di uscita, il Canale di Suez e a Sud lo stretto di Bad al Mandab. Il Canale non può essere attraversato perché in mano agli inglesi, come tutto l’Egitto. Anche lo stretto di Bad al Mandab è pattugliato da mezzi aerei e navali inglesi. Compreso tra Eritrea e Yemen, in arabo è conosciuto come “Porta delle lacrime” o “Porta del lamento funebre” perché attraversato da forti correnti trasversali e la presenza di numerose secche che, nei secoli, ha sempre rappresentato un rischio per la navigazione. Il comandante ha un piano per uscire dal Mar Rosso. Un’isola, Perim, contribuisce a restringere ulteriormente il passaggio e Mazzella decide di passare tra l’Isola e la terraferma, ma dal lato yemenita. Gli inglesi sono concentrati a controllare l’altra parte dello stretto che, essendo più ampia, permette un attraversamento relativamente sicuro. Di notte la sorveglianza aerea non è operativa e non sarà difficile eludere anche quella in mare. A luci spente il mercantile attraversa lo Stretto di Perim senza essere visto, evita i settori minati dagli inglesi e supera l’ultima parte dello Stretto di Bad al Mandab, attraversa il Golfo di Aden e punta su Capo Guardafui in Somalia. Finalmente, lontani dalla minaccia, inglese la nave entra nell’Oceano Indiano. La navigazione è tranquilla. Il barometro non mostra segni della presenza o dell’avvicinamento di depressioni tropicali. Per evitare il rischio di fare spiacevoli incontri, Mazzella si tiene lontano dalle normali rotte commerciali e di notte preferisce navigare con le luci di navigazione spente. Il profilo della nave non la identificava come militare. La presenza dei bighi di carico la etichetta senza alcun dubbio come mercantile. Certo ha montati i 4 cannoni e le mitragliatrici, ma non è difficile mascherarli. L’unico problema era la bandiera che poteva facilmente essere cambiata con una di un paese neutrale. Tuttavia, è preferibile stare lontani da altre navi sia militari che mercantili. Le vedette sono pronte a segnalare ogni fumaiolo o vela in vista e grazie alla sua velocità, la RAMB II, può facilmente allontanarsi. Intorno alle 12,15 del 27 febbraio, il marconista ha raccolto il messaggio di S.O.S. della RAMB I. Al crepuscolo mattutino, l’incrociatore leggero neozelandese Leander avvista il pennacchio di fumo della bananiera italiana. In contemporanea anche le vedette della RAMB I notano la manovra di accostata della nave militare che cerca di identificarli. Il Capitano di Corvetta Bonezzi ordina il primo grado di approntamento generale e ordina al segnalatore di prepararsi a rispondere ai segnali luminosi dei neozelandesi che chiedono la nazionalità della nave. Dalla RAMB I la risposta è: siamo inglesi. Il profilo del mercantile non trovava riscontro fra quelli delle navi inglesi e i neozelandesi insistono. Tentativo di mascheramento fallito. Bonezzi ordina, a questo punto, di far fuoco contro l’incrociatore e con il telegrafo ordina di spingere la macchina al massimo della sua potenza. La bananiera può raggiungere una velocità di 17 nodi che non sono sufficienti a sfuggire ad un incrociatore leggero intenzionato a tentare un abbordo. Abbassata la bandiera inglese, si mette sull’albero il tricolore monarchico e alle 11,53 parte la prima salva contro i neozelandesi. I cannonieri non hanno avuto modo di esercitarsi a sufficienza e tuttavia un colpo centra l’incrociatore, ma il proiettile non esplode. A quel punto la RAMB I non ha più scampo. L’incrociatore spara con tutti i suoi otto cannoni e riduce la distanza dalla nave italiana. Spara altre cinque bordate con numerosi colpi che vanno a segno. Bonazzi si rende subito conto che la nave è perduta, ordina al marconista di lanciare l’S.O.S. e all’equipaggio di abbandonare la nave dopo aver acceso le micce delle cariche esplosive per l’autoaffondamento. Mentre le lance si allontanano dalla nave, una prima esplosione distrugge il ponte di comando e poco dopo esplode il deposito munizioni. L’agonia della RAMB I dura pochi minuti. I marinai vengono recuperati dai neozelandesi e tradotti in un campo di prigionia inglese a Colombo, Ceylon (Sri Lanka) dove resteranno fino alla fine della guerra. Il comandante Mazzella sa di non poter prestare soccorso. Ordina “Avanti tutta” per allontanarsi il più velocemente possibile dall’area non sapendo se siano presenti altri pattugliatori nemici. Lui e Bonazzi hanno preferito stare lontano dall’India, passando a Sud delle Maldive che ha superato già da tre giorni.
La rotta più conveniente per raggiungere il Giappone è quella che passa per lo Stretto della Malacca, Singapore e da lì, attraverso il Mar Cinese Meridionale, raggiungere il passaggio fra l’isola di Luzon delle Filippine e l’Isola di Formosa (ora Taiwan). La più conveniente, ma sicuramente la meno indicata per una nave militare italiana. Quelle acque sono frequentatissime dagli inglesi e il rischio di essere individuati è alto. Non resta altro da fare che puntare a Sud Est, passare ad almeno 300 miglia a sud di Sumatra fino a raggiungere Timor e da lì risalire verso nord per raggiungere il Giappone passando per lo Stretto delle Molucche. Serviranno dieci giorni circa per arrivare a Timor. I due marinai pozzallesi hanno una grande esperienza di mare, ma non sono mai stati in quelle acque. Il caldo è insopportabile. Gli ufficiali beneficiano del sistema di aria condizionata della nave. Sottufficiali e marinai, no. Diversamente dal caldo del Mar Rosso, qui è l’umidità elevata che rende l’aria pesante e irrespirabile. Durante le ore del giorno è impossibile lavorare in coperta e l’eccessiva sudorazione comporta un aumento del consumo di acqua potabile che non è certo inesauribile. In sala macchine i turni di guardia sono stati accorciati. Nonostante le maniche a vento siano tutte aperte, l’aria circola a fatica.
8 marzo 1941
Sull’aletta di sinistra, Eugenio è di vedetta. Alle 2 della notte, il sottile spicchio di luna nella sua fase crescente è tramontato da quasi due ore e il cielo è illuminato solo dal chiarore delle stelle. La ricerca della polare è inutile. Le costellazioni sono tutte diverse da quelle che Eugenio è abituato a vedere. Non ne riconosce nemmeno una e non riesce a capire come faccia il comandante ad orientarsi. Sorveglia il settore che gli è stato assegnato con attenzione e ha l’impressione di vedere un’ombra al traverso della nave proprio sull’orizzonte. Aguzza meglio la vista quando la vedetta che si trova al cannone in controplancia avvisa l’ufficiale di guardia, attraverso il tubo portavoce, di aver avvistato terra a sinistra. È l’Isola di Natale, ad una distanza di circa 12 miglia. L’ufficiale annota l’avvistamento sul giornale nautico e prova a fare il punto nave. La visibilità scarsa, la distanza e le piccole dimensioni dell’isola non permettono di avere una posizione certa, ma sufficiente per avere conferma del punto nave fatto al crepuscolo nautico del giorno prima. Nel corso della notte la temperatura scende di qualche grado, ma è sempre insopportabile. Un po’ di refrigerio arriva dalla ventilazione provocata dal movimento della nave, che procede a circa 13 nodi e molti preferiscono dormire all’aperto in giacigli improvvisati.
10 marzo 1941
La RAMB II è in vista di Timor Est. Si accosta per nord e si entra in acque indonesiane, Mar di Savu. Superato il dedalo di isolette, il 15 la nave attraversa lo Stretto delle Molucche e punta a Nord Ovest per raggiungere il Giappone. La bananiera ha ancora lo status di incrociatore ausiliario della Regia Marina e l’equipaggio è formato da personale militare. Il 18 marzo, a pochi giorni dall’arrivo a Nagasaki, un dispaccio proveniente dall’Italia avvisa il comandante che la nave non può approdare in Giappone in considerazione del suo stato di paese neutrale anche se sottoscrittore del Trattato Tripartito (Ro. Ber.To.) firmato a Berlino il 27 settembre 1940 che prevede la “spartizione” di Europa ed Asia una volta vinta la guerra. Mazzella ordina la rimozione dell’armamento della nave che viene nascosto in una stiva, il mascheramento dei basamenti di cannoni e mitragliatrici e la nave ridiventa mercantile cambiando il nome in Calitea II. È solo un travestimento. L’equipaggio resta composto da militari regolarmente inquadrati fra il personale del Regio Corpo Equipaggi Marittimi Militari. I dispacci che seguono cambiano la destinazione della nave che da Nagasaki diventa Kobe, importante porto giapponese, dove La Calitea II arriva il 23 marzo.
Il clima di Kobe è simile a quello di Pozzallo, ma anche di Genova. A dire il vero è un po’ più freddo a causa dell’influenza delle montagne che circondano il porto, ma meglio il freddo che le temperature infernali del Mar Rosso, del Golfo di Aden e della zona tropicale indonesiana. Eugenio e Orazio immaginano di essere vicino casa. Quando, liberi dai servizi, i due compaesani s’incontrano, raccontano delle loro famiglie, dei giochi di adolescenti, delle prime avventure amorose, della sofferenza provocata dall’assenza di notizie dall’Italia e da non poterne, a loro volta, inviare. Eugenio, poi, ha anche un fratello che, come lui, è stato richiamato alle armi e anche di lui non ha notizie. Sottobordo è arrivato il carico delle provviste fresche. Un ultimo sforzo per metterle a bordo e poi arriva anche un po’ di riposo. Con i bighi di bordo l’operazione richiede poche ore e ora la cambusa è piena di ogni ben di Dio. Ora la nave è fermamente ormeggiata in porto e il rollio, che pure non ha mai dato fastidio, rapidamente diventa un ricordo. Chissà per quanto tempo godranno di questa tranquillità.
Maggio 1941
Il Lloyd Triestino, una delle più importanti società di navigazione commerciale italiane, nel 1940 cambia il suo nome in Linee Triestine per l’Oriente. Il Lloyd ha ormai una tradizione secolare e fra alti e bassi, dopo le difficoltà finanziarie dei Fratelli Cosulich, con una serie di passaggi azionari diventa un’azienda parastatale. La Calitea II, che resta di proprietà della Regia Marina, viene affidata in gestione alla società triestina. Dopo due mesi di sosta a Kobe è ora di riprendere in mare. Linee Triestine per l’Oriente ha un suo ufficio di rappresentanza a Tientsin e al mercantile viene ordinato di raggiungere il porto cinese.
Quanto è strana la vita e come si realizzano strani e imprevedibili intrecci. Un altro Colombo, Giovanni, marinaio del Regio Corpo Equipaggi Marittimi Militari è arrivato nel Mar di Bohai ed è sbarcato a Tietsin. Giovanni era imbarcato sulla Regia Nave Elba e fu inviato a difendere la legazione italiana di Pechino durante la rivolta dei Boxer. Giovanni Colombo morì, a pochi giorni dalla liberazione della capitale cinese, in conseguenza dello scoppio di una potente carica di esplosivo piazzata dai rivoltosi per creare un varco nelle mura di cinta che proteggevano l’area delle legazioni diplomatiche europee. https://www.monaca.rg.it/2023/10/26/regia-nave-elba/
L’8 dicembre 1941 il Giappone attacca Pearl Harbour e dichiara guerra agli Stati Uniti e la Calitea II viene noleggiata da Linee Triestine per l’Oriente al governo giapponese. Nessun cambio di equipaggio. I marinai, i sottufficiali e gli ufficiali della ex Ramb II, ora Calitea II restano al loro posto. La nave viene impiegata per il trasporto di armi, munizioni, rifornimenti di equipaggiamenti e pezzi di ricambio a supporto delle attività logistiche delle forze armate giapponesi. Si potrebbe dire che svolge quasi un servizio di linea fra Makassar, Surabaya, Kendari e altri porti indonesiani nelle isole di Giava, Bali e Sumatra. L’equipaggio italiano, con sempre al comando Mazzella, è stanco. Il clima equatoriale, le navigazioni brevi da trovarsi continuamente in manovra, le derrate alimentari non sempre di buona qualità, l’assenza di informazioni su quanto succede in Europa rende i marinai italiani sempre meno motivati. Si sentono obbligati a prestare un servizio ad un esercito che non è il loro e a combattere idealmente per una guerra che non gli appartiene. Non sono direttamente impegnati in attività militari. Ad essere realisti il loro compito è quello di condurre un mercantile che trasporta merci. Svolgono, semplicemente, il loro lavoro con una grande differenza: non hanno lo stipendio e devono obbedire agli ordini che arrivano da un paese che molti di loro neanche immaginavano esistesse.
Il 7 gennaio 1943, Eugenio, mentre la Calitea II è in navigazione da Makassar a Surabaya, riesce a far inviare dal marconista un telegramma diretto ai suoi genitori. Il telegramma viene instradato via Pechino e accettato alle 10,50 del 7 gennaio. Il 10 gennaio arriva all’ufficio telegrafico di Pozzallo e il fattorino si affretta a consegnarlo e arrivato all’incrocio fra via De Pretis (ora Rapisardi) e via Guerrazzi si annuncia al grido di “telegramma”. Giovanna Rosa, mamma di Eugenio, socchiude la porta, si affaccia e guarda in direzione del fattorino che ricambia lo sguardo e sventola il piccolo quadrato giallo di carta. “Puoluto, Puoluto, vieni” urla al marito temendo una cattiva notizia. I due coniugi hanno due figli maschi, Eugenio e Francesco. Tutti e due sono in guerra e di loro non si hanno notizie da parecchio tempo. Cosa può significare un telegramma? Una cattiva notizia! Deve per forza trattarsi di una cattiva notizia. Il fattorino intanto è giunto sotto la piccola scaletta di accesso all’abitazione e sorride. Il contenuto della corrispondenza è riservato, ma nel piccolo ufficio telegrafico lui era presente quando l’operatore ha trasformato le linee e i punti dell’alfabeto Morse in parole. Giovanna non sa come interpretare quel sorriso, ha timore a prendere il telegramma che il fattorino le porge anche perché non sa leggere e non riuscirebbe a capire il tenore del contenuto. Ippolito, che al richiamo allarmato della moglie si è precipitato fuori, forte della sua altezza si allunga quasi a sovrastare la moglie, prende il pezzo di carta sigillato con un filo di colla ancora umido e lo apre. Ippolito sa leggere e scrivere. È un Padrone Marittimo, un comandante di bastimenti. È un messaggio cortissimo, ma sufficiente ad allontanare ogni cattivo presagio. “Benissimo abbracci” Colombo, Pekino, legge ad alta voce e abbraccia Giovanna con gli occhi pieni di lacrime.
10 luglio 1943
La Calitea II si trova ormeggiata nel porto di Surabaya dove è arrivata alle14 del 9, quando a Pozzallo erano le 20. Il porto di Surabaya è situato nella parte est dell’Isola di Giava ed è uno dei porti più vivaci dell’Indonesia. Durante la notte il marconista ha provato a captare qualche segnale radio europeo senza riuscirci. Ogni tanto arriva qualche messaggio morse destinato al comandante proveniente dal comando italiano, ma la trasmissione arriva dalla vicina Cina, Shanghai, dove ha sede il Comando Superiore Navale in Estremo Oriente. Sono messaggi di routine oppure ordini di attività da svolgere per conto dei giapponesi. Eugenio e Orazio non possono immaginare che in quelle ore, nel Canale di Sicilia, gli alleati, con un ingente spiegamento di forze aeree e navali si stanno avvicinando alla costa siciliana. Impegnati nelle operazioni di movimentazione del carico nel porto indonesiano, i due, con il grado di sottonocchiere, sono marinai esperti nello stivaggio del carico e seguono tutte le operazioni attenti a non danneggiare le merci. I giapponesi non tollerano il minimo errore e anche se gli italiani sono loro alleati, si ritengono superiori in abilità marittime e considerano ogni piccolo danneggiamento frutto di imperizia. I militari giapponesi protestavano contro il comando e facevano rapporto al Comando Navale italiano che minacciava pesanti sanzioni per l’equipaggio.
Da via Guerrazzi, Ippolito e la moglie, genitori di Eugenio, non hanno la possibilità di guardare il mare davanti la spiaggia di Pietre Nere. Diversa è la situazione a Raganzino. Tommasa, madre di Orazio Secondo, la sera prima non era uscita per svuotare il vaso usato da tutta la famiglia per i bisogni corporali. Lo svuotamento ed il lavaggio del vaso è, normalmente, un compito del capofamiglia, ma Raffaele, il marito di Tommasa Barrera e padre di Orazio, nel 1912 è emigrato negli Stati Uniti. Ritorna a Pozzallo, per un breve periodo, nel 1914 e poi 1919. Il 25 agosto 1919 s’imbarca a Napoli sul piroscafo Regina d’Italia di proprietà del Lloyd Sabaudo e per un po’ invia rimesse regolari alla famiglia in Sicilia. Poi le rimesse s’interrompono e da quel momento di lui non si avranno più notizie. Tutto il carico familiare, ora, ricade su Tommasa ed è per questo motivo che dello svuotamento del vaso se ne occupa lei. Quella sera con il vento forte e i cavalloni che s’infrangevano contro gli scogli non sarebbe stato possibile né consigliabile procedere allo svuotamento e al successivo lavaggio del vaso di terracotta. Alle prime luci dell’alba, sperando anche in una diminuzione della forza della tempesta, Tommasa prende il vaso, si avvia verso la porta e ha l’impressione di sentire un mormorio diffuso. Appena arriva all’incrocio con via XXIV Maggio, vede un suo vicino, Vincenzo Susino, che si affanna a rientrare in casa chiamando più volte e ad alta voce la moglie Maddalena. Si chiede cosa può essere successo e vede che anche dalle altre abitazioni le persone guardano verso il mare e sono visibilmente spaventate. Il mare davanti agli scogli bassi di Raganzino è pieno di navi militari e mezzi da sbarco. Molto presto il paese si sveglia con la notizia che sbarcano “i nglisi” e anche allo Scaro ci si rende presto conto di quanto succede. È iniziato lo sbarco delle forze angloamericane in Sicilia. I militari italiani non hanno ordini e soprattutto non hanno mezzi per difendersi. Le spiagge di Pietre Nere, Raganzino e Maganuco sono minate, ma fra loro ci sono ampi spazi di scogliera attraverso i quali uno sbarco dal mare è facilissimo da realizzare. I tedeschi, che sono acquartierati sull’altura dove si trova il “Castello Di Martino”, che domina tutta la baia di Pozzallo, sono i primi a fuggire. Nessuna resistenza è possibile. Poche ore dopo l’alba un piccolo contingente di soldati canadesi, sfila lungo via XXIV Maggio, senza dare fastidio alla popolazione barricata in casa e si avviano verso “via Scicli” per raggiungere l’entroterra modicano. La guerra in Sicilia, cominciando da Pozzallo, è finita, ma a Surabaya nessuno lo sa.
24 agosto 1943
La Calitea II ha bisogno di importanti lavori di manutenzione. La bananiera è stata utilizzata per trasportare di tutto. Il Comando Superiore Navale in Estremo Oriente decide, in accordo con i giapponesi, di trasferirla a Kobe per le necessarie riparazioni. Le macchine principali sono quelle che hanno più bisogno di una revisione completa. Le ore di moto e anche le condizioni operative in acque così calde tali da non permettere un perfetto raffreddamento hanno deteriorato più velocemente le varie componenti dei due motori. Qualche problema lo manifestano anche gli assi delle due eliche e la tenuta dei pressatrecce non è ottimale. Partenza da Saigon in zavorra, arriva il 24 agosto a Kobe, in Giappone, pronta ad entrare in cantiere dopo una valutazione degli interventi da effettuare. Il Giappone inizia ad avere i primi problemi di sostenimento delle attività belliche contro gli americani che, considerando l’attacco di Pearl Harbour un atto di vigliaccheria, sono decisi ad annientare le forze armate nipponiche e stanno mettendo in gioco tutta la loro capacità bellica. I giapponesi riconoscono la necessità dei lavori, ma, nello stesso tempo, puntano ad effettuare solo quelli estremamente urgenti in modo da continuare ad utilizzare il mercantile proprio per la necessità di mettere in campo quanto più naviglio possibile e soddisfare la logistica delle attività belliche. Il 7 settembre il capitano di vascello Giuseppe Prelli, comandante del Comando Superiore Navale in Estremo Oriente (CSNEO) e il maggiore commissario Benenti, capo servizio amministrativo, decollano da Shanghai diretti a Tokyo da dove, dopo una sosta, dovrebbero trasferirsi a Kobe per valutare assieme ai giapponesi gli interventi da effettuare sulla Calitea II.
8 settembre 1943
L’Italia firma l’armistizio. Il paese è spezzato in due. Le forze armate non hanno ordini. È lo sbando completo. Il 9 settembre il tenente di vascello De Leonardis, al comando della cannoniera fluviale Ermanno Carlotto, gira un dispaccio proveniente da Supermarina alla Calitea II e all’Eritrea, nave appoggio che, come le Ramb, aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal Mar Rosso in Estremo Oriente. Il messaggio ordina alle navi italiane di consegnarsi agli Alleati se in grado di raggiungere porti inglesi o americani oppure di autoaffondarsi. L’Eritrea, in navigazione nello Stretto della Malacca, riesce a sfuggire ai giapponesi e raggiunge Colombo, consegnandosi agli inglesi. La Calitea II, non ancora entrata in cantiere, resta bloccata nella rada di Kobe. Il messaggio proveniente dall’Ermanno Carlotto è cifrato ed è necessario qualche minuto per tradurlo in chiaro. Quando il marconista finisce la decrittazione, il comandante Mazzella, che per tutto il tempo è rimasto con lui, da immediatamente ordine al tenente di complemento Giordano del Genio Navale di aprire le valvole Kingston per affondare la nave. Le valvole Kingston furono introdotte in ambito marittimo nel 1837, si trovano sul fondo della nave e una volta aperte, fanno si che l’acqua di mare entri e allaghi i vari compartimenti comportando l’affondamento dell’imbarcazione. L’equipaggio esegue l’ordine senza indugio e senza che i soldati e gli operai giapponesi a bordo si accorgessero del sabotaggio. Nello stesso tempo vengono rapidamente calate le lance di salvataggio. Con tutte le valvole aperte la nave sbanda rapidamente da un lato e il comandante Mazzella, che si trova sul ponte delle lance a dirigere le operazioni, perde l’equilibrio e cade su una delle lance che è già in mare. Nella caduta si ferisce gravemente, ma non è in pericolo di vita. Alle 11 del 9 settembre 1943 la Calitea II è affondata. La reazione dei giapponesi è spietata. Il comandante Mazzella viene curato, ma rinchiuso con tutto l’equipaggio in un campo di concentramento dove sono sottoposti ad ogni tipo di vessazione. Il Giappone non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra e nei confronti degli italiani, ritenuti dei vigliacchi e traditori, sono senza pietà. Lavori forzati, scarsità di cibo, condizioni igieniche scarsissime e punizioni corporali pesanti mettono a dura prova il fisico di quei poveri marinai colpevoli di aver obbedito agli ordini dei propri superiori. Il capitano di vascello Prelli e il maggiore Benenti sono stati arrestati a Tokyo e successivamente riuniti con l’equipaggio della bananiera. Alcuni, non riescono a sopravvivere a quei trattamenti disumani. Altri, per salvarsi dalle torture, il 9 febbraio 1944, preferiscono aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Salò, ma non per tutti la richiesta viene esaudita. Quella del comandante Mazzella e del tenente Saxida, successivamente morto in un ospedale di Tokyo di denutrizione, ritenuti i principali responsabili dell’affondamento della Calitea II, non viene accettata dai giapponesi rimanendo in detenzione fino alla fine della guerra.
Alla R.S.I. aderirono anche Eugenio Colombo e Orazio Secondo. E qui è il caso di aprire una parentesi. La condizione di questi due marinai, prima che militari, non può certamente essere paragonata a quella dei repubblichini italiani. Molti in Italia aderirono alla R.S.I. perché fascisti. Molti altri perché credevano ancora alle fandonie di Mussolini ed erano convinti che Hitler avrebbe vinto la guerra. Altri, opportunisti nell’animo, speravano di ricavarne un tornaconto e altri ancora, spaventati dal terrore e dai ricatti dei fascisti, cedettero nella certezza che alla fine del regime mancava poco tempo. Certo non mancarono gli atti di eroismo. Gran parte degli effettivi delle FF.AA. italiane non aderirono alla repubblica fascista perché fedeli al giuramento monarchico. Tanti altri militari diventarono partigiani e tantissimi di quelli che venivano catturati dai tedeschi preferivano la prigionia. Eugenio e Orazio non si trovavano in nessuna di queste situazioni. Non si interessavano di politica, non volevano combattere contro nessuno, non avevano simpatie per il Re o per Mussolini. Erano imbarcati su una nave mercantile per portare uno stipendio a casa e, invece, gli è stata messa addosso una divisa. Hanno continuato a fare i marinai su una nave che, improvvisamente, è diventata una nave da guerra. Non hanno mai sparato un colpo di cannone o di mitragliatrice o di un semplice fucile. Non sanno cosa sono le armi. Sono, semplicemente, uomini di mare. Il loro comandante gli ha ordinato di affondare la nave? L’hanno fatto, ma non perché l’ha ordinato Supermarina. Non per obbedire a un ordine militare. No. L’hanno fatto perché l’ha ordinato il comandante. Ora sono richiusi in un campo di prigionia, dall’altra parte del mondo, bastonati e umiliati da soldati senza pietà, affamati e assetati, senza vestiario sufficiente per proteggersi dal freddo, obbligati ad assistere ad esecuzioni sommarie. Devono fare gli eroi? Per cosa, per chi? L’adesione alla R.S.I. non li porterà a combattere, non sanno combattere. Faranno i marinai, solo i marinai.
Eugenio e Orazio, dal campo di concentramento, imbarcano su una nave tedesca che, non potendo rientrare in patria allo scoppio del conflitto, è stata noleggiata al Giappone. È la stessa attività della Calitea II. Nasce nel 1920 come nave passeggeri e cargo dotata, quindi, di stive per il carico e cabine per i passeggeri. Al varo, avvenuto a Flensburg, in Germania, l’11 maggio 1921, prende il nome di Havenstein. L’armatore, Hugo Stinnes Schiffahrt GmbH Line di Amburgo, la destina a navigare sulle rotte per il Sud America per essere trasferita in Estremo Oriente a metà 1939. Quando la Germania scatena la Seconda Guerra Mondiale, l’armatore non vuole rischiare di perdere la nave in un attacco di mezzi navali inglesi e preferisce lasciarla sulle rotte fra Cina, Giappone, Indonesia e Singapore. Il 26 aprile 1941 arriva l’ordine di requisizione. La Havenstein passa sotto il comando della Kriegsmarine che la mette a disposizione della Forza Navale di Attacco Germanica comandata dal Vice Ammiraglio Paul Wennecker. Come la Calitea II, la nave, viene noleggiata ai giapponesi che le cambiano il nome in Teisho Maru. Questa è la nave su cui si ritrovano i due marinai pozzallesi dopo aver accettato di aderire alla R.S.I. Dal campo di concentramento vengono trasferiti a Moji, porto a nord di Nagasaki. La nave è sotto comando tedesco e l’equipaggio è tedesco, giapponese e italiano. Anche questa nave è utilizzata intensivamente. Ad ogni viaggio ha sempre una scorta e ora Eugenio e Orazio si rendono conto di essere in all’interno di una guerra. Ora sono militari. Lo erano anche sulla Calitea II, ma non lo avvertivano perché l’equipaggio era quello della Ramb II, della bananiera. Ora sulla Teisho Maru sono soldati comandati da altri soldati fanatici della disciplina militare.
Il Giappone è sempre più in difficoltà. Gli americani vogliono riprendersi Filippine, Taiwan, Cina e vogliono arrivare fino al cuore del Giappone. Sul fronte europeo la guerra è praticamente conclusa ed è possibile spostare risorse in Estremo Oriente. Ad ogni viaggio della Teishu Maru i rischi aumentano. I sommergibili americani sono ovunque e le scorte faticano non poco per proteggere i convogli. A partire dal mese di ottobre del 1944, il comando in capo americano ha deciso di conquistare le Filippine e per farlo deve distruggere le basi aeree giapponesi e navali presenti nell’isola di Formosa (Taiwan). Formosa rappresenta una sorta di ponte fra il Giappone e l’arcipelago delle Filippine. Una imponente formazione da battaglia composta da 17 portaerei, 6 corazzate, 4 incrociatori pesanti, 10 incrociatori leggeri e 58 cacciatorpediniere che prende il nome di Task Force 38 è schierata per svolgere questo compito.
12 ottobre 1944
Al comando del viceammiraglio Marc Mitscher, corrispondente al grado di ammiraglio di squadra della Marina Italiana, la Terza Flotta statunitense, chiamata Task Force 38 si schiera con i quattro gruppi di portaerei e le navi di scorta, da nord a sud, per tutta la lunghezza dell’isola di Formosa. Le formazioni navali sono in avvicinamento, ma i giapponesi le hanno individuate e gli americani lo sanno. Alle 3:40 l’allarme aereo viene diramato su tutta l’isola. La posizione di lancio delle ondate di bombardieri è stabilita a 59 miglia a est di Formosa. Alle 05:44 i primi aerei decollano dalle portaerei del quarto gruppo, USS Belleau Wood, USS Enterprise, USS Franklin e USS San Jacinto. Attaccano il sud dell’isola puntando principalmente all’area di Takao (oggi Kaohsiung). È ancora buio. Il sole sorge alle 06:47. I radar della TF 38 non evidenziano nessun tentativo di ostacolare i bombardieri e gli aerosiluranti protetti dai caccia. Le condizioni meteo sono abbastanza buone. Le nuvole coprono i 2/10 del cielo, il vento, da nord est, ha una velocità tra i 16 e i 27 nodi e la visibilità è di circa 15 miglia.
La Teisho Maru si trova ormeggiata con il lato sinistro ad una delle banchine del porto di Takao. Sono le 08:17 quando quattro aerei della seconda ondata si avvicinano da dritta della nave, mentre altri tre si avvicinano da sinistra. Sono bombardieri. L’intenso fuoco delle mitragliatrici non permette agli aerei avvicinarsi in modo utile allo sgancio e sono costretti a cercare un altro bersaglio. L’area portuale è sotto attacco. Le ondate di aerei americani si susseguono una dopo l’altra, ma è alle 12:47 che tre formazioni composte da tre aerei ciascuna, disposti a V, si avvicinano da dritta della nave. Il primo aereo della formazione centrale viene immediatamente abbattuto dalle mitragliatrici montate a prora, a poppa e in controplancia. A difendere la nave contribuiscono anche i due cannoni di prua e di poppa, ma non hanno lo stesso successo e quattro bombe colpiscono la Teisho Maru. Tre esplodono a prua, vicino al cannone distruggendolo assieme alle mitragliatrici. La quarta esplode sul molo a poppa della nave. L’incendio provocato dalle bombe è incontrollabile. Il vento, che ha cambiato direzione, ora viene da ovest nord ovest, e alimenta maggiormente le fiamme rendendo ogni tentativo di spegnimento completamente inutile. Il comandante ordina all’equipaggio di abbandonare la nave e alle 16 questa si adagia sul fondo, davanti al molo n. 8 del porto di Takao. I feriti vengono trasportati in ospedale. Fra questi si trovano Eugenio Colombo e Orazio Secondo. Al momento dello scoppio degli ordigni si trovavano in prossimità delle mitragliatrici e anche se non direttamente feriti dallo scoppio, sono stati raggiunti dalle fiamme riportando estese ustioni su tutto il corpo. L’attacco americano ha tolto la vita a quattro cannonieri, sette marinai giapponesi e 20 marinai tedeschi e italiani. Eugenio e Orazio spirano all’ospedale di Takao il 12 ottobre 1944.
Anche il fratello di Eugenio, Francesco morirà a causa del fuoco, ma in modo, forse, più crudele. Morto il 5 aprile 1945 nel campo di concentramento di Gusen in Austria verrà bruciato nei forni crematoi. Francesco verrà catturato dai nazisti a Chiavari e deportato prima a Mauthausen e poi trasferito nel sottocampo di Gusen dove morirà per i maltrattamenti e per le privazioni come altre centinaia di migliaia di persone. Non è chiaro se l’arresto, a seguito di un rastrellamento, sia stato eseguito perché Francesco fosse un partigiano o, più probabilmente, perché soldato italiano in fuga. Resta, purtroppo, un diverso trattamento riservato al ricordo dei due fratelli. Mentre il primo, Eugenio, è stato dimenticato anche dalla sua famiglia, il secondo, Francesco, è considerato un eroe perché morto in un campo di concentramento tedesco e gli è stata dedicata una lapide affissa sulla facciata del Palazzo Comunale. L’unica differenza fra i due fratelli è stata l’adesione di Eugenio alla R.S.I., scelta necessaria per fuggire alle torture a cui venne sottoposto dai giapponesi, mentre il fratello Francesco non fece questo passo, ma non ci sono prove che abbia rifiutato e che veramente fosse un partigiano. Il papà Ippolito e la madre Giovanna non ebbero la possibilità di rivedere i loro due unici figli né poterono avere una tomba su cui piangere. Di Eugenio, i due coniugi, ricevettero una valigia con qualche indumento e oggetti personali dalla quale mancava un libretto di risparmio postale che era stato emesso a Genova e sul quale erano depositate 2900 lire. Di Francesco restarono solo i ricordi.
In una lettera inviata il 26 agosto 1947 alla Direzione Generale del Corpo Reale Equipaggi Marittimi, Ippolito, oltre a lamentarsi della mancanza del libretto postale, si fa portavoce di Tommasa Barrera che, invece, non ha ricevuto nulla del figlio. Dopo qualche tempo, a Pozzallo, in via Solferino, una mamma sola, riceve un’urna nella quale sono contenuti i resti del figlio morto in un paese lontanissimo, in una guerra che altri hanno deciso di fare, su una nave che avrebbe dovuto essere il suo luogo di lavoro.
© Monaca Antonio
Fonti: https://www.wikiwand.com/it/articles/Ramb_II,